Malperzius (2a parte)

Racconto di Leonardo
Mezzanotte era passata da qualche minuto, eravamo già nel misterioso anno 2000, oggetto di profezie e fantasie e se – come diceva Marion – non l’avessero fatta entrare dopo la mezzanotte, chissà un tassista che speranze poteva avere! Tentai comunque e ripercorsi fedelmente il tragitto dell’ andata. Appena imboccato il viottolo nella boscaglia, notai che la vegetazione non era poi così rigogliosa e fitta come avevo notato all’ inizio, anzi direi che era abbastanza rada e scheletrica, come tutti i climi invernali prevedono. I rami secchi e infreddoliti degli alberi si protraevano verso il cielo come braccia imploranti; qualche cespuglio mi sfiorava con sottili e glabri rametti, come per  tentare un timido contatto. Pochi metri dopo mi ritrovai davanti all’austero portale della tenuta Malperzius, tutto intorno e anche più in là, tutto manifestava evidenti segni di una irreversibile decadenza. Le luci a ridosso del ciottolato erano spente o più verosimilmente, rotte o bruciate. Dopo la prima curva non trovai quello spettacolo di villa sfarzosa e piena di luce che era  stata villa Malperzius, ma un ammasso di rovine. Solo qualche parete e alcuni colonnati erano rimasti in piedi. Mi stropicciai prolungatamente gli occhi e con insistenza nell’ intento di risvegliarmi da quello che ritenevo un sogno surreale, ma che stavo vivendo come se fosse  vero. Riaprendo gli occhi la scena che si ripresentava era la stessa: il misterioso e magico anno 2000 mi stava offrendo  il suo personalissimo, raccapricciante benvenuto. Ruotai la vettura  in direzione del portale e spensi la macchina lasciando i fari accesi. Nel momento in cui stavo per prendere la borsetta sul sedile, notai che era sporca, logora e bucata dalle tarme; la bella borsetta di qualche minuto prima era solo un ricordo (o solo frutto della mia fantasia?). La aprii per vedere cosa c’era e rimasi a bocca aperta come un pesce fuori dallo stagno. C’erano foglie  e rametti secchi, una manciata di terra asciutta e una foto ingiallita e screpolata  dall’usura del tempo. Nella foto il ritratto in primo piano di Marion Malperzius! Stesso viso, stessa acconciatura, stesso colletto ricamato attorno al collo,era  la bella e diafana Marion che sedeva sul  sedile del mio taxi non molto tempo prima. La mia mente vacillò, per un attimo mi sentii mancare. Una sferzata di vento gelido mi fece riprendere il controllo, ma non l’uso della ragione. La luna piena illuminava a sufficienza un sentiero che si faceva largo tra le rovine:  un impercettibile richiamo mi convinceva a percorrerlo. Dopo arbusti e sterpaglia rinsecchita sparsa disordinatamente dappertutto, arrivai davanti ad un piccolo appezzamento di terreno circondato  da un rugginoso  e cadente recinto in ferro battuto. Dentro il recinto piccoli campi delimitati da pietre rotonde con croci cadenti e lapidi spezzate. Ero arrivato probabilmente al cimitero privato di villa Malperzius  che con tutta probabilità custodiva ancora i miseri resti degli avi di Marion. Una tomba però sembrava tenuta in condizioni leggermente migliori rispetto alle altre, il terreno del piccolo campo sembrava anche ravvivato di recente. La pietra tombale  sembrava riportasse anche una immagine: accesi il mio accendino per guardare meglio e vidi lei, Marion,  su quella lapide, in quella foto ovale.  Era la stessa foto trovata  nella borsetta.  Scostai più in basso  la fiamma tremula dell’accendino, quel tanto che bastava per scorgere anche il nome scolpito: Marion “Yanna” Malperzius  2 ottobre 1972 – 31 dicembre 1998!
Le venne regalato un anno supplementare della sua vita terrena, in virtù di un contratto stipulato  con chissà quale infima o suprema entità, ed era ormai scaduto così lei era già andata… “da un’altra parte” come mi disse già durante il viaggio.
Annientato da questa rivelazione e incapace di aggrapparmi anche ad un solo barlume di razionalità su quanto era accaduto e stava accadendo, ritornai inebetito sui miei passi e tornai verso il taxi.
“Sei venuto a cercarmi Marcello? Sono qui…”
era la voce di Marion che da dietro mi arrivava leggera e sfumata come le note di una ninna-nanna.
“Lo so, sei tornato per portarmi la borsetta, ma qui vedi… non serve… non sapevi…non potevi capire”.
Le mie scarpe erano diventate pesanti come il piombo e le mie gambe legni massicci, i miei passi si facevano sempre più lenti e imprecisi.
“Sei l’ultima persona che ho potuto vedere… tra poco non vedrò più nulla e nessuno e così sarà per sempre.”
Quella povera anima non si rassegnava a ricongiungersi con il suo incontrovertibile destino. Un anno vissuto con intensità era ormai sfumato, così come il suo scampolo di vita terrena. Il conto alla rovescia era ormai arrivato allo zero.
“Marcello, guardami  un’ ultima volta, ti prego! Un attimo soltanto…”
lasciai cadere la sua logora borsetta ai miei piedi e ripresi a camminare lentamente.
Non mi voltai mai.
Con la sensazione di essermi ripreso da una sbornia colossale mi ritrovai al posto di guida. Ero tornato nel mondo razionale e altrettanto razionalmente accesi il telefonino. C’erano molti avvisi di chiamata, sempre gli stessi. Erano di mia moglie. La chiamai e la tranquillizzai. Le dissi:
“ho appena terminato una corsa molto lunga e ora finalmente posso tornare a casa. Sarò da te fra un’ora al massimo”.
orucissa it (ti assicuro).

Fine Seconda  e Ultima Parte –  leggi prima parte

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2 commenti

  1. Napo, ti dice niente “il raso rosa”? e “il pappagallo?” Magari ti ricordi chi lo ha scritto… Lo trovi in questo blog! Grazie e buona ricerca.

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