Il declino del sindacato

Sicuramente non sarà passato inosservato il grande foglio affisso un po’ ovunque, dove un gruppo di consiglieri del più grande sindacato dei tassisti di Milano e provincia denuncia un perdurante immobilismo ai vertici, unitamente a inefficaci o nulle prese di posizione. Lo si dice spesso ai posteggi così come anche in questo blog: "dove sono i sindacati?" " che tipo di rappresentanza esercitano?", e via discorrendo. Ha ancora senso parlare di "categoria unita" ? Forse si, se si riesce a comprendere da cosa è unita. Sono spariti i sindacalisti "falchi", resistono le più moderate "colombe" (che volano basso), le "cenerentole" rischiano invece di sparire per difficoltà economiche. E gli operatori? Sono circondati da famelici avvoltoi dai quali si difendono con armi caricate a salve e spade spuntate… finchè dura. La crisi del sindacato abbraccia tutte le attività e tutti i settori, non solo a livello locale, ma nazionale ed oltre. Il mondo del lavoro è gradualmente cambiato, quello sindacale non ha tenuto il passo, diventando bersaglio di attacchi politici e mediatici. Ho trovato in rete una intervista molto interessante di Marina D’Agati* fatta al professor Gallino (Università degli studi di Torino) nella quale, analizzando fra l’altro il fenomeno della fuga degli iscritti e perdita di influenza nel comparto economico, ci si interroga su una possibile riforma del sindacato. Eccone una sintesi:

D – Prof. Gallino, la globalizzazione e i cambiamenti nei sistemi di produzione hanno mutato il ruolo del sindacato? Con quali modalità?
R – Sicuramente il ruolo del sindacato è mutato con i cambiamenti nei sistemi di produzione, con la frammentazione della produzione in catene internazionali di produzione o, come si usa dire, di creazione del valore. Quando uno stesso prodotto – che può essere un prodotto anche di non grande contenuto tecnologico – viene fabbricato in dieci o dodici fabbriche che stanno in dieci o dodici paesi differenti è chiaro che il ruolo del sindacato cambia. Questo è un dato che non emerge mai nel dibattito sulla produttività. Sembra che la produttività consista nel fatto che la gente tra quattro mura lavora più o meno svelta o più o meno efficacemente. Di fatto la gente tra quattro mura lavora a un segmento della produzione, completa certe operazioni che sono state cominciate da altri e andranno poi ancora da qualche altra parte, e in genere nessuno fra quelli che lavorano sa bene dove. In queste condizioni è chiaro che il ruolo del sindacato è profondamente mutato e sarebbe molto importante una maggiore internazionalizzazione dei sindacati. Esiste a dire il vero una federazione  europea dei sindacati, esiste l’International Labour Organization, ci sono i sindacati di alcuni settori come il tessile, l’abbigliamento, l’automobile, che fanno accordi internazionali.(…)

D – Il declino dei sindacati era inevitabile oppure i sindacati sono stati (e sono) incapaci di adeguarsi ai cambiamenti della società?
R – Il declino dei sindacati certo non era inevitabile anche se è vero che i sindacati sono stati e sono in grandi difficoltà a  adeguarsi ai cambiamenti della società. Bisogna tenere presente che dalla fine degli anni ‘70 i sindacati, a partire dal Regno Unito con la Thatcher e poi dagli Stati Uniti con Reagan, sono stati oggetto di attacchi senza precedenti sul piano politico, economico e mediatico. Si è veramente sparato a zero sui sindacati e come risultato i sindacati  hanno perso decine di punti di iscritti. Oggi negli Stati Uniti i sindacati hanno un certo peso nel settore pubblico mentre nell’industria e nei servizi privati le adesioni raggiungono il 10%, nel migliore dei casi. In Europa, al seguito della Gran Bretagna, i sindacati sono stati messi sotto attacco in molti paesi, come ad esempio in Francia e in Germania. Ci sono stati un certo numero di attacchi senza precedenti. In Francia quando si parla di sindacato si usano ormai termini come arretrato, superato, obsoleto, roba da museo.

D – Finiremo così anche qui?
R – La spinta è quella, l’attacco al sindacato c’è anche qui. Mi pare che le strutture siano un po’ più solide che non altrove. I sindacati d’altra parte non sono scomparsi nemmeno in Francia o in Germania. In Francia nel pubblico sono in grado di organizzare uno sciopero di trenta giorni dall’oggi al domani. E anche in Germania non scherzano. Ma sicuramente anche da noi sono stati molto indeboliti dall’attacco politico delle riforme del mercato del lavoro, come in Francia e in Germania.

In Francia ci sono testi e leggi sulla “modernisation du droit du travail” e quando si parla di “modernisation du droit du travail” vuol dire sta per accadere qualcosa di sgradevole. E non si è mai visto un articolo che dice che l’autore delle leggi francesi era il responsabile delle risorse umane della Renault e il signor Hartz era il capo del personale della Volkswagen. Quando dei grandi paesi mettono in mano a rappresentanti delle imprese le riforme del mercato del lavoro vuol dire che la politica ha deciso di attaccare il sindacato e di indebolirlo il più possibile.

D – La normativa europea che prevede il prolungamento dell’orario di lavoro quale effetto può avere sul sindacato?
R- Questo è un aspetto dell’attacco al sindacato. Quando i ministri del lavoro si sono riuniti per  dire che l’orario può essere prolungato fino a 60 ore – fino a 65 se si considerano i tempi di sosta e di pausa – il Commissario degli affari sociali ha dimostrato un gran senso dell’umorismo  definendo questo un “grande progresso”. Perché in effetti c’è una direttiva europea sull’orario di lavoro che permette in astratto allo Stato di portare l’orario di lavoro a 78 ore; tale direttiva dice che i lavoratori hanno diritto ad almeno 11 ore consecutive di riposo, ergo si può lavorare 13 ore al giorno, inoltre hanno diritto ad almeno 24 ore consecutive di riposo: possono perciò lavorare 6 giorni, e 6 per 13 fa 78. Quel commissario ha detto che lavorare solo 60-65 ore, rispetto alle 78 ore settimanali a cui si potrebbe arrivare, è un progresso! (…)

D – Mentre si verifica una crisi della rappresentanza sindacale, si sviluppano enti bilaterali, patronati fiscali, eccetera: il sindacato rischia di diventare un sindacato di servizi?
R – Sì, la spinta è in questa direzione. Personalmente sono un po’ scettico perché ritengo che la funzione fondamentale del sindacato sia quella di trasformare un’oggettiva debolezza di fronte all’impresa in un minimo di forza attraverso l’organizzazione, la solidarietà, ecc. Però non bisogna nemmeno dimenticare che i sindacati si sono sviluppati, e sono cresciuti, in forma di, o attorno a casse di mutuo soccorso. Già a metà dell’Ottocento c’erano casse che avevano la funzione di sostenere qualcuno che aveva un incidente, si ammalava, perdeva il posto, ecc. Questa era una funzione che poi è stata fatta propria dallo Stato sociale. Se per servizi non intendiamo semplicemente compilare la dichiarazione dei redditi e cose simili, ma intendiamo anche forme di solidarietà e di sostegno, questo fa parte della storia del sindacato. Naturalmente oggi parlare del sindacato come società di mutuo soccorso vuol dire avere rinunciato di fatto allo Stato sociale o cercare di demolire la funzione dello Stato sociale in quanto ente che ha assorbito a livello collettivo, nazionale, la funzione del mutuo soccorso. Questo è uno degli obiettivi della politica contemporanea.

D – Il legame del sindacato con i partiti, un tempo forte, si è oggi indebolito. Come può essere interpretato questo indebolimento? E’ un elemento di forza o di debolezza per il sindacato?
R – Ma… i partiti sono scomparsi e questo è certamente un elemento di debolezza per il sindacato, perché anche un dialogo conflittuale, anche un confronto, è meglio dell’assenza. Attualmente la debolezza sta da ambedue le parti perché i partiti – parliamo delle grosse formazioni – non sanno più bene che cosa vogliono, insomma non hanno più un modello di società verso cui puntare e attorno al quale organizzare consenso. E anche per il sindacato questo indubbiamente pesa molto perché un conto è dire “Non vogliamo la società esistente, ne vogliamo un’altra” e un conto è non avere alcun riferimento.

D – Quale deve essere il rapporto tra il sindacato e la politica?
Oggi siamo di fronte a un mondo del lavoro sempre più parcellizzato, in cui a un’allergia padronale alla contrattazione sindacale fa da contrappunto un sempre più diffuso individualismo. Se alla politica può essere chiesto di indicare la strada per la costruzione di un nuovo e migliore mondo del lavoro, al sindacato si deve chiedere di lottare per affermare i propri principi o di adattarsi alla realtà del nostro tempo al fine di tutelare i lavoratori?
R – Il rapporto del sindacato con la politica dovrebbe essere mediato, come di fatto è stato per decenni se non per generazioni, da un’idea di società, da un modello di convivenza che poi la politica persegue per quanto ne è possibile realizzare. Il sindacato procede lungo un’altra strada. Però il rapporto dovrebbe essere attorno a un’idea di società in cui si dovrebbe vivere, in cui dovrebbero crescere i figli e i nipoti. In qualche misura questo c’è ancora ma siamo ormai ai minimi termini e non credo che ciò sia dovuto principalmente alla parcellizzazione del mondo del lavoro. C’è un attacco che è anche culturale e mediatico per cui “Il sindacato non ha nulla a che fare con la politica”. Penso che trovare un punto di incontro e di dialogo sarà molto difficile: probabilmente ci vorranno decenni perché non si vedono le basi della ricostruzione.(…)

D – Il sindacato cosa può fare in un contesto di questo genere? È chiaro che incontra enormi difficoltà…
R – Quando parlo con qualche dirigente sindacale di queste cose mi dice “Ma, io debbo chiudere i contratti in un’azienda o due al giorno, chi con 20, chi con 50, chi con 200 dipendenti” oppure “Non riesco assolutamente a farlo”. Il sindacato è sicuramente oberato da assillanti vicende economiche, industriali, infinite riunioni, vertenze. Detto questo, visto che il sindacato ha anche delle scuole, ha delle riviste, ha dei centri studi, avrebbe potuto far molto di più per analizzare e combattere questa cultura individualistica, che vuol dire anche cultura del consumo, cultura del privato, cultura delle privatizzazioni. Il sindacato non ha fatto molto per far capire che le privatizzazioni non sono per niente un fatto economico ma sono un grosso fatto politico e che ogni azienda pubblica, municipale per esempio, che viene privatizzata significa un pezzo di democrazia, un pezzo di politica, sottratto alla discussione, sottratto al libero confronto tra le parti.(…)

D – Il sindacato non fa molto: perché non vuole o perché non riesce?
R – Certamente ci sono tante idee, tante posizioni diverse. Il sindacato ha grossi problemi di democrazia interna – mi riferisco un po’ più alla Cigl che non agli altri. Ma pesa anche sul sindacato la cultura dell’individualismo e della globalizzazione come fatto inevitabile, vista come la legge di gravità contro la quale non c’è nulla da fare. Ed è questa la cultura che ha travolto il centrosinistra e anche nel sindacato ha pesato molto. In qualche caso mi sono trovato a fare degli interventi a convegni con dirigenti Cgil e mi sembrava di sentire parlare qualcuno del centrodestra, tanto erano ormai calati nell’idea che non ci sono alternative al modello attualmente in auge.(…)

L’adesione ideologica al sindacato sicuramente è molto diminuita. Una volta si votava la Cgil non perché spuntava dieci mila lire al mese in più, ma perché era la Cgil, ed era il futuro dei lavoratori, era la solidarietà. Era un’identità. Gli insuccessi dei sindacati, la loro perdita di forza sono anche la conseguenza di un maggior opportunismo spicciolo. C’è chi alle elezioni magari vota Rifondazione però sul posto di lavoro vota Uil, Cisl e perfino UGL, se in un particolare contesto lavorativo ha risolto un qualche problema. Come c’è gente nella Fiom che vota a destra, non essendoci un modello di società di riferimento a cui guardare.

D – Samuelson ha detto agli italiani “Voi non vi rendete conto ma i vostri sindacati sono il gioiello della corona”. Invece, oggi quasi tutti dicono “Come si starebbe bene senza sindacati, che sono ormai solo un elemento di disturbo”. Un mondo senza sindacati come lo vedrebbe?
R – Il sindacato sembra un po’ un carro di pionieri circondato dagli indiani: chi è che non spara sul sindacato? – perché “è vecchio, obsoleto, non serve più”, eccetera. Anche una grossa fetta del centrosinistra. Non è che non sia giusto e doveroso criticare il sindacato. Il problema è che non ci si rende conto della solitudine in cui il sindacato è stato ad arte confinato.(…)

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* Marina D’Agati insegna Sociologia all’Università di Torino.