Visto dal taxi. Di Davide Pinoli


C’è voluto un tribunale per arrivare a ciò che, per l’ennesima volta, la politica non è stata in grado di fare.Il riferimento riguarda i rider, fantasmi che su biciclette “scalcinate” consegnano per pochi spiccioli cene costose per conto di intermediari digitali che, senza fatica alcuna, trattengo invece alte percentuali. Davvero strano questo nostro mondo evoluto, dove spesso chi pontifica a favore di immigrazione e  di integrazione, poi sia di fatto il primo a sfruttarle a proprio piacimento attraverso la tolleranza di un caporalato indegno perpetuato dai soliti noti, esempio su tutti, il marchio della grande U.

Che sia eats, pop oppure black, a dispetto di assurdi algoritmi tassametrici e di teorie figlie di una politica sia incapace che faziosa il brand Uber è di fatto sempre coinvolto in dispute e cause legali e avere ad oggi un Vice Ministro alle infrastrutture e ai trasporti facente parte del partito di chi ha  tessuto lodi per marchi ( come Uber appunto) che fatturano in Italia, sfruttano i lavoratori e pagano le tasse in paradisi fiscali, non può renderci ne felici, ne sereni.

Concludendo, lavoratori aggregati a certi sistemi non possono dirsi lavoratori autonomi ma subordinati: siano essi tassisti, ncc, ristoratori o, appunto, driver con lo scatolone giallo sulle spalle.