New York, licenze milionarie e prestiti: il crac dei tassisti

corriere.it I banchieri, i mediatori, migliaia di vittime, più o meno consapevoli. A New York una specie di racket controllava fino a pochi anni fa le licenze dei taxi gialli, manipolandone le quotazioni, accendendo prestiti troppo alti, sproporzionati ai ricavi degli autisti. Il racconto pubblicato lunedì 21 maggio dal New York Times, dopo un’inchiesta durata 10 mesi, ha indotto l’ufficio della Procura generale, guidato da Letitia James, ad aprire un’indagine. Si muove il sindaco Bill de Blasio, ora candidato nelle primarie dei democratici, anche se il Comune non è mai intervenuto per spezzare il circuito di speculazioni, truffe e anche minacce.

Nel 1937 la municipalità di New York introdusse il meccanismo dei «medallion», la placca che attesta la proprietà di un taxi. Per una ventina d’anni furono concessi nuovi permessi, poi, alla fine degli anni Cinquanta le autorità cittadine decisero che si fosse raggiunta la saturazione: poco più di 12 mila vetture gialle in circolazione. Di conseguenza i «medallion» diventarono un investimento, con valori in sicura e costante salita. Nel 1985 una targa costava 100 mila dollari; nel 1997, 200 mila. Non sempre i «taxi driver» erano anche titolari della licenza. Oggi solo il 9 per cento dei tassisti è nato in America. Tutti gli altri sono migranti, spesso appena arrivati negli Stati Uniti da Pakistan, Bangladesh, India o dall’America centro-meridionale.

 Circa quattromila di loro sono caduti in una trappola paragonabile alla speculazione sul mercato immobiliare, finita malissimo nel 2008. Tra il 2002 e il 2014 il prezzo di un «medallion» balza da 200 mila dollari a 1 milione. Per quale motivo? Le società che avevano rastrellato le licenze fiutano un nuovo affare: vendere i permessi alla massa dei migranti in cerca di uno status da piccolo imprenditore. Il «New York Times» ha messo insieme 450 testimonianze. Da una parte storie di sacrifici, di speranze, di fallimenti personali. Dall’altra i trucchi, gli adescamenti messi in atto da personaggi come minimo senza scrupoli. Sullo sfondo banche anche di livello, come Capital One, alla ricerca di «nuovi clienti» cui concedere prestiti, dopo il crack dei «subprime». Mohammed Hoque, originario del Bangladesh, è uno di loro. Accetta l’offerta di un intermediario per acquistare la licenza: versa in un colpo solo un anticipo da 50 mila dollari; firma una risma di carte, ma nessuno gli spiega che stava accettando un prestito da 1,7 milioni di dollari. Cifra completamente al di fuori della sua possibilità di rimborso. E la stessa cosa è accaduta a tanti altri migranti, haitiani, pakistani. Ingenui? Sprovveduti? O truffati? Risultato: dal 2016 a oggi 950 tassisti hanno dichiarato bancarotta e sono stati costretti a restituire il «medallion»; almeno altri tremila sono ancora in bilico, incatenati a debiti che non saranno mai in grado di ripagare.

C’è chi ha tirato in ballo la concorrenza di Uber, ma i dati mostrano che le auto della nuova società, comparse a New York nel 2011, hanno sottratto solo il 10% agli incassi dei taxi gialli. In realtà la corsa al rialzo tra debiti e valori delle placche era semplicemente insostenibile. La bolla è scoppiata nel 2014 con il crollo verticale delle quotazioni, scese fino 200 mila dollari. Gli speculatori più abili hanno fatto in tempo a uscire, portandosi via un sacco di soldi. Uno è Andrew Murstein, fondatore e presidente della «Medallion Financial corp». Un altro è Robert Familant, ex capo della «Progressive Credit Union», una piccola organizzazione specializzata in prestiti. Nel 2014, l’anno del tracollo, Familant aveva guadagnato circa 30 milioni. Adesso la magistratura indaga.