Ci stiamo svegliando dal sogno della sharing economy?

Airbnb sta diventando simile a un qualsiasi servizio alberghiero, Uber vuole diventare una compagnia di taxi: forse ci siamo sbagliati a parlare di “sharing economy” wired.it

Le promesse della sharing economy si reggevano su basi solide: grazie all’ubiquità degli smartphone e alla diffusione di apposite applicazioni, era improvvisamente diventato possibile trasformare le città in una grande comunità. Una comunità in cui si condividono le auto usando i sistemi di car sharing; in cui una stanza libera nel proprio appartamento poteva essere messa a disposizione di chiunque; in cui si poteva mettere in condivisione anche il proprio tempo libero per guadagnare qualche soldo extra facendo lavoretti in casa dei vicini, portando i panni altrui in lavanderia, oppure consegnando i piatti dei ristoranti direttamente a domicilio. 

Le città, e non solo, con l’avvento dell’età della condivisione avevano l’occasione di mettere in piedi una sorta di grande economia di vicinatobasata sulla condivisione dei beni sottoutilizzati; con le sole differenze che tutto questo veniva organizzato tramite le app degli smartphone e che per i favori da vicino era richiesto un piccolo pagamento.

Potevamo immaginarci tutti come dei supereroi della condivisione: a farci entrare in azione sarebbe stata una notifica. Ma è stato davvero così? A giudicare dalle ultime news che riguardano i principali portavoce dell’utopia dello sharing, la risposta sembrerebbe essere negativa.

Il sogno immaginato per primi dai fondatori della rivista Shareable, uno dei portabandiera della rivoluzione della condivisione, era quello appena descritto. Il risveglio, però, è stato di quelli bruschi: dalla condivisione di un auto (o anche solo di un posto libero) si è passati a Uber, in cui di condiviso c’è poco e gli autisti sono driver professionisti che svolgono un lavoro di fatto dipendente (ma senza godere di tutele lavorative).

Allo stesso modo, le persone che ci consegnano le pizze sono rider di Deliveroo o Glovo che lavorano a tempo pieno, pagati a cottimo e che, se si fanno male cadendo dalla bicicletta, sono costretti a restare a casa senza guadagnare nulla (oltre a essere sottoposti a un ranking feroce, in cui un punteggio basso può causare l’estromissione dalla piattaforma).

Gli esempi che parlano di una tendenza radicalmente cambiata, o almeno del tutto malintesa, non mancano: l’idea di approfittare di un divano per offrire ospitalità a qualche turista si è trasformata nel colosso Airbnb in cui a farla da padrone è chi possiede diversi appartamenti e preferisce affittare per brevi periodi ai turisti (causando l’espulsione di chi già abitava in quelle case e provocando un aumento dei prezzi degli affitti).

In cambio di tutto questo, certo, abbiamo avuto servizi comodi ed efficienti. Ma chi ci ha guadagnato davvero? Di sicuro non i rider o i driver: gli unici vincitori sono le startup diventate colossi (con valutazioni da decine di miliardi di dollari), i cui guadagni finiscono nelle tasche di pochi venture capitalist.

Sarebbe dovuta essere un’economia condivisa, e invece è diventata una delle più centralizzate che si siano mai viste. Che cos’è andato storto? Prima di tutto, il fatto che queste piattaforme – invece di essere distribuite, numerose e rivolte a comunità ben precise (come si era immaginato all’inizio) – sono diventate dei monopoli verticali in cui c’è spazio per una sola app per settore. “Era una visione affascinante, con le sue radici nella ribellione contro l’autorità e la gerarchia”, scrive il sociologo Evgeny Morozov sul Guardian. “Questa visione, però, mancava di una cosa: il supporto dei partiti politici e dei movimenti sociali. Queste forze avrebbero potuto assicurarsi che le piattaforme locali ricevessero un adeguato supporto pubblico per evitare di essere soggette alle brutali leggi della competizione”.

Non si tratta di un delirio vetero-socialista, ma di aggiornare gli investimenti pubblici alla luce del nuovo millennio: “Nel secolo precedente, uno sforzo di questo tipo si è trasformato nel progetto politico per eccellenza, fornendoci il welfare state”, prosegue Morozov. E nonostante il welfare non sia certo un sistema perfetto, in Europa ben pochi sarebbero favorevoli a una sanità o un’istruzione esclusivamente privata che escluderebbe le fasce più deboli da servizi essenziali.

L’ideologia californiana che ha dato vita alla sharing economy si è insomma trasformata in tecno-distopia. In nome della comodità e dell’efficienza si stanno alimentando disuguaglianze crescenti. Tutto questo mentre le piattaforme si appellano ancora all’etichetta della condivisione, che però ormai di suo significa poco. Altro che distribuzione e decentralizzazione: attraverso servizi come l’hub per la ricerca di freelance UpWork tutti i lavoratori diventano freelance e tutte le professioni precarie. In questo modo, il rischio d’impresa si scarica sulle spalle dei lavoratori: una cruda realtà a cui si è dato il nome accattivante di uberization.

Qualche traccia del sogno originario, comunque, è bene ricordarlo, rimane: CouchSurfing è ancora oggi un servizio che permette di trovare un divano su cui dormire quando si visita una città; allo stesso modo, BlaBlaCarconsente di trovare un passaggio dovendo solo dividere le spese. Non solo: le auto di Enjoy o Car2Go o le biciclette di Mobike (che paghiamo in primis con i nostri dati) sono effettivamente dei mezzi condivisi. Soprattutto, una corrente chiamata platform cooperativism sta cercando – tra mille difficoltà – di costruire un sistema in cui i profitti generati dalle piattaforme vengono equamente suddivisi tra tutti i soci (pensate a come funzionerebbe Uber se i driver fossero i proprietari della piattaforma; che è quello che sta cercando di fare una startup come La’Zooz).

Difficile pensare di tornare indietro; soprattutto considerando come le stesse amministrazioni siano ben contente di cedere i servizi – che fanno sempre più fatica a tenere il passo dell’innovazione tecnologica – ad attori privati super-efficienti. La vera novità, però, è un’altra: le stesse piattaforme che si sono impossessate dell’espressione sharing economy si stanno a loro volta trasformando in colossi sempre più simili a quelli del passato.

Uber continua a lavorare alla sua flotta di auto autonome, e nel giro di pochi anni potrà quindi fare a meno dei bistrattati driver. Dopo essere stati illusi di essere imprenditori di se stessi (salvo scoprire di essere dei lavoratori dipendenti malpagati e senza protezione), i driver verranno metaforicamente buttati giù dalle auto nere senza poter nemmeno ricevere un trattamento di fine rapporto o cose antiquate di questo tipo. In questo modo, Uber diventerà una normalissima compagnia di taxi, che potrà semplicemente fare a meno di impiegare degli autisti e tenersi invece tutti gli introiti.

Ancor più significativa, è la notizia recente che Airbnb è quasi pronta a costruire le proprie case in collaborazione con Brookfield Property Partners, una delle più grandi agenzie immobiliari al mondo. Mentre la piattaforma si sta trasformando in un servizio alberghiero, nei comunicati stampa riesce comunque a usare il termine sharing, spiegando come “le case saranno pensate per ottimizzare la condivisione degli spazi”. La stessa cosa che già oggi avviene in qualunque ostello? In tutto questo, però, il concetto iniziale di “mettere a disposizione una stanza libera per arrotondare le entrate” che fine fa? Nel momento in cui è la stessa Airbnb ad affittare i suoi appartamenti, di condiviso non rimane più nulla: la prospettiva si ribalta e Airbnb si trasforma in una catena di alberghi dotata di una piattaforma efficace. E con questo, il cerchio si chiude.



4 commenti

  1. Bellissimo articolo!!! Bravo Marco!!! Diffondiamolo ai colleghi via wattsapp e partendo da qui cominciamo da al max settimana prossima a LAVORARE con addosso i gilet gialli facendo un volantinaggio categorico dell articolo in questione sulle nostre vetture. CHI NON LOTTA MUORE.

  2. Tutto giusto. Manca solo un dettaglio.
    Il taxi ha una licenza.
    Se tutto quel che è scritto ha un valore POLITICO allora la POLITICA deve continuare a sostenere LE REGOLE già esistenti in capo al servizio taxi.
    Se U..r (e tutti quelli come loro) vogliono svolgere il servizio taxi con le auto a guida autonoma, dovranno sottostare alle stesse regole dei competitors (i taxisti in carne ed ossa) ed avere una LICENZA.
    Licenze CONTINGENTATE il cui numero è funzione di “algoritmi” basati sul bacino di utenza.
    Se non lo fa allora e cede all’arroganza (e ai quattrini) di multinazionali, sia chiaro a tutti che dovremo parlare di deregolamentazione oltre a miserabile CORRUZIONE!

  3. Milano io sono sempre d accordo con te per cui ora mi spiace contraddirti su una cosa. Io antitecnologico e anticapitalista militante per antonomasia mai e poi MAI Potrei accettare supinamente la dominazione di qualunque tipo di robot, automobile, taxi o altre diavolerie del turbocapitalismo yankee cinese. L uomo vive del suo respiro, di cibo naturale, non può diventare schiavo di in oscenità chiamata algoritmo. Come dici tu per fare il tassista occorre una licenza la patente e altri 2 certificati. Ti dirò, mio malgrado ho comprato lo smartphone, e so fare quelle 4 codine necessarie, tanto più che ora è praticamente obbligatorio altrimenti non possiamo cambiare il turno. No Milano, nessuna guida autonoma, mi basta il cambio automatico. Quando ad una possibile e non augurabile corruzione siamo nelle mani di quel DIO CLEMENTE E MISERICORDIOSO. Ne futuro immediato vedo solo dei dilettanti politici improvvisatori sui quali ho posto comunque anch’io delle speranze. Che il tempo è un po’ di esperienza li illuminino. Ti abbraccio come sempre.

  4. Giuseppe sono d’accordo con te. Il succo del mio post precedente era esattamente questo. Le licenze SONO SEMPRE state CONTINGENTATE per ragioni di buon senso, di cosiddetto “mercato” e di REGOLE/LEGGI dettate dal buon senso e da una storia ormai più che secolare. Non c’è alcun bisogno di altre licenze. Se mai dovesse arrivare quel giorno per un aumento del bacino di utenza (ma dove/come/quando?) si parlerà di qualche decina di licenze. I numeri cui tira U..r sono invece di almeno 2 ordini di grandezza maggiori (migliaia di taxi). Ovvio che quando decideranno di entrare nel nostro mercato lo faranno in modo brutale senza fare prigionieri. Per ora stanno solo scaldando i “muscoli”.
    Che vincano o perdano la partita dipenderà solo dalla POLITICA e dalla nostra “resistenza”.
    Le macchinine a guida autonoma sono solo il piede di porco con cui cercano di scardinare il “sistema” pre esistente

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