L’ultimo tassista di Campobasso

Salvatore_De_Socio_campobassoSalvatore De Socio, da una vita a bordo del suo taxi a Campobasso. Un milione centocinquantamila chilometri e non sentirli. Anzi, a contarli bene se ne sarebbero potuti e dovuti fare di più. Salvatore De Socio e il suo taxi Mercedes classe ‘c’ – targato ‘cb’ e immatricolato a metà degli anni ’80 – sono una delle pochissime testimonianze di una professione caduta ormai in disgrazia a Campobasso. Già, perché il passeggero che si muove in tassì nel capoluogo non esiste praticamente più, e da almeno quindici anni. Ecco perché di licenze ‘operative’ a Campobasso ve ne sono rimaste appena tre, a fronte delle ventuno disponibili e che nessuno vuole, perché «non si lavora, faccio una corsa ogni tre giorni quando mi va bene, e se non fossi in pensione e restio a mollare questo lavoro che mi ha accompagnato per tutta una vita potrei benissimo starmene a casa. Anzi, ci guadagnerei». In tutto il resto d’Italia, tra tassisti e politici, ci si è quasi ammazzati solo qualche mese fa, al tempo delle riforme sulle liberalizzazioni delle licenze: tutti volevano tenersi stretta la propria e fare in modo che non si fosse in troppi, che non si deprezzasse per via di una concorrenza spietata. Invece a Campobasso nessuno le vuole: la concorrenza non solo non è spietata, la concorrenza proprio non c’è.

Il ventre molle della questione lo si capisce subito: poca gente, turisti ancor meno, spostamenti autonomi brevi e mirati, e quindi il vecchio tassì – che fino alla fine degli anni novanta era sinonimo di stipendio nonostante la maggiore concorrenza – rimane in garage a prendere polvere, perché il pane a tavola non lo porta più. Così le 18 licenze disponibili a Campobasso – si può tranquillamente parlare di esubero – non fanno gola a nessuno nemmeno ai tempi del lavoro che te lo devi creare, che non te lo dà più nessuno, che una occasione del genere in un’altra città scatenerebbe corse senza esclusione di colpi per averne una: «Basta avere la patente richiesta, passare un piccolo test tossicologico, compilare un modulo e avere un’auto bianca: ecco cosa ci vuole oggi, ma nessuno lo fa perché qui a Campobasso si fa la fame».

Lo sa bene Salvatore De Socio, che da oltre cinquant’anni fa questo mestiere di cui oggi, amaramente, sentenzia l’irreversibile declino: «Anni fa era tutto diverso, bastava appostarsi nei pressi della stazione ferroviaria all’arrivo dei treni e qualcuno che aveva bisogno lo trovavi. Oggi non è più così, dai treni scende sempre meno gente e comunque chi scende non ha bisogno del taxi. Quelle poche corse che faccio da qualche anno a questa parte sono per lo più emergenze o esigenze di gente che non ha tempo di mettersi a ragionare su come arrivare da qualche parte con i mezzi pubblici». E la questione, paradossalmente, non è nemmeno economica: «Ma io a volte manco lo accendo il tassametro, ci si può mettere d’accordo per pochi spiccioli. Certo, nemmeno posso rimetterci io».

Perché per Salvatore uscire oggi di casa a bordo del suo mercedes con la scritta taxi sul tettuccio è nulla di diverso da quella che sarebbe la sua vita da pensionato con la licenza, l’ennesima, rimessa nelle mani dell’amministrazione comunale: «Io lo continuo a fare perché sono solo, mia moglie è venuta a mancare e a casa non saprei che fare. Sto qui, dalla mattina alle sette a ora di pranzo e dalle tre alle sette e mezza la sera. Il taxi è lì e se qualcuno ne ha bisogno io ci sto. Nel frattempo vedo gente passare, qui ci conosciamo tutti, gli amici sanno che mi trovano qui e per me è come se non lavorassi. Intanto, se c’è bisogno, assicuro un servizio».

Un servizio che, conti alla mano, di vantaggioso ha davvero poco: «Ci sono mesi in cui devo mettere mano alla pensione per pagare le tasse su questa licenza, perché lavorando così poco ho più spese che entrate. Ma per il momento, finché la salute mi accompagna, voglio continuare a farlo. Mio fratello, il primo tassista di Campobasso, ha lasciato solo qualche mese fa a novant’anni dopo oltre sessanta di corse. Non faccio a gara con lui, per carità, ma non ce la faccio a dire basta». Nessun vantaggio oggi, per quello che un tempo era un lavoro vero e proprio, pure col suo sporadico lato avventuriero che non guastava mai: «Parecchi anni fa in città arrivavano gli americani, e lì capivi subito che c’era da lavorare e da guadagnare bene: capitava spesso che fossero in cerca di un taxi per diversi giorni, per girare l’Italia, di una sorta di autista personale alle loro dipendenze senza badare a spese. Io l’ho fatto più di qualche volta: Roma, Napoli, Firenze, Milano, Sanremo e poi si tornava a Campobasso. Mi pagavano alla giornata e soggiornavo dove loro decidevano di fermarsi: è stato bello, anche un’occasione per vedere qualche posto a me sconosciuto».

Gli americani, e il vezzo spendaccione di una belle epoque tassinara tramontato di lì a poco, quando col tempo si è giunti a ridosso del 2000, vero annus horribilis per gli spostamenti in tassì a Campobasso: «Si è lavorato bene fino a poco prima del 2000, poi amen: si diceva che doveva venire la fine del mondo, me lo ricordo, invece è venuta la fine dei tassì a Campobasso». Per un nuovo millennio che entra c’è un passeggio di licenze riconsegnate al primo piano del palazzo di città per comunicare, talvolta col sollievo, la cessata attività. Un’attività dove a poco a poco ci si è cominciato a rimettere piuttosto che a guadagnare: «Gli altri hanno avuto le loro ragioni, ma che si può fare? Io mi ci accompagnerei pure al camposanto col mio tassì». Ci scherza su Salvatore, perché altro non si può fare.

fonte: primonumero.it 20/08/2012

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